Diario di una vita
Chi si prende cura del caregiver?
Ho discusso ampiamente del caregiver, su chi è, cosa fa. E’ un termine, oramai, di uso comune al quale ultimamente viene aggiunto l’aggettivo “familiare” che si differenzia dal generico, perchè non riceve alcun compenso, non è inquadrato a livello professionale, non è tutelato legalmente, e soprattutto è privo di qualsiasi diritto.
Essendo una realtà molto presente, e in continuo aumento, vista l’avanzare dell’età e la prospettive di vita delle persone, anziane ma con sempre più patologie invalidanti, la parola caregiver riempie la bocca di qualsiasi candidato politico che si propone come paladino della situazione per poi dimenticarsene nel momento stesso in cui ottiene ciò che vuole: i voti.
Anche dal punto di vista locale, ahimè, non c’è granchè e le poche associazioni, legate alla disabilità alle quali mi sono rivolta, non sembrano molto interessante a cavalcare un’onda piatta e priva di qualsiasi sostegno, soprattutto politico.
Non se ne vuole parlare, non interessa, è qualcosa che si vuole mantenere nell’oscurità e per questo motivo ritengo giusto parlarne. Rivesto questo ruolo e come me tante mie conoscenti che, a differenza mia, sono completamente assorbite e annullate dalla criticità di ciò che stanno vivendo.
La prima cosa che vorrei mettere in luce è che questo ruolo non lo si assume per vocazione, ma più spesso per necessità, non si può fare diversamente perchè non ci si può permettere economicamente, una badante, che si occupi a 360° della persona bisognosa di aiuto. Badante che, tra le altre cose, non è neanche così facile trovare. Scorrendo qualsiasi giornale è pieno di annunci di figure che si candidano come tali, salvo poi scoprire che, non solo non hanno alcuna qualifica, ma soprattutto che la loro è una disperata ricerca di un lavoro retribuito, un incarico che in pochi vogliono assolvere.
Ma non è solo la questione economica, seppur importante, a frenare la possibilità di delegare a qualcun altro la cura di un tuo familiare, non più autonomo. Spesso è l’amore che ti lega, il rispetto per chi ti ha dato la vita e ha fatto sacrifici per te, e in ultimo i sensi di colpa che diventano i tuoi compagni giornalieri, che ti pungolano ogni qualvolta la mente prevale sul cuore e ti spinge a ricercare un pò di libertà.
Così è successo a me 13 anni fa. Io ho scelto di dedicarmi alle cure di mio marito per amore, per rispetto, perchè pensavo e penso tuttora che ci sia un tacito accordo, nella coppia, il quale dice che bisogna sostenersi l’un con l’altro, e questa volta era lui ad aver bisogno di me, e toccava a me darglielo.
Non avevo messo in conto però che la vita cambia irrimediabilmente. Quando rinunci alla tua vita “normale” per dedicarti ad un’altra persona, tu perdi completamente la connessione con te stessa, la tua autonomia, e ovviamente qualsiasi ambizione tu abbia avuto dal punto di vista sociale e o professionale.
Perchè a tutti gli effetti la disabilità diventa anche la tua, non sei e non sarai più la persona di prima esattamente come la persona che assisti. E tutto ciò richiede un enorme sacrificio. Motivo per il quale non mi stupisce che, a coprire questo ruolo, siano per quasi il 90% donne, di cui la gran parte madri, figlie e in numero inferiore mogli o compagne, un esercito invisibile di donne, che sacrificano la propria vita per amore.
La cosa più evidente è l’impegno fisico, occupazionale, spesso totalizzante, dovuto al fatto che l’assistenza è continua, non ci sono mai soste ne periodi di vacanza. Le esigenze personali non svaniscono nei giorni festivi, ve l’assicuro.
Ma seppur l’impegno fisico è estenuante, a volte massacrante, nulla è paragonabile al carico emotivo, mentale al quale siamo costantemente sottoposte. Sì, perchè anche quando riusciamo a ritagliarci uno spazio, per allontanarci dalla persona di cui ci prendiamo cura (e non tutti lo possono fare) la mente non è mai sgombera dai pensieri, dai sensi di colpa, dovuti al fatto che ti stai occupando di te stessa, quando invece dovresti occuparti dell’altra persona che non è autonoma.
Se decidi poi di affidare la cura, temporaneamente a qualcun altro oltre ai sensi di colpa, sei anche pieno di dubbi o pensieri catastrofici su ciò che può accadere in tua assenza.
Così il senso di responsabilità si associa all’enorme carico emotivo personale, che ogni giorno, dobbiamo affrontare quando impotente assistiamo alla sofferenza della persona che amiamo. Perché ogni giorno è diverso. Se lui sta bene anche tu stai bene, se lui è malato tu, inevitabilmente lo diventi.
Il coinvolgimento è totale e ti prosciuga tutte le energie fisiche ma soprattutto mentali.
E lo scopri strada facendo perchè nessuno, dico nessuno, nell’anno trascorso all’ospedale con lui, mi ha presa da parte per dirmi che cosa mi aspettava. Mi hanno mostrato come sollevare una persona allettata, indossando un busto elastico che mi preservasse la schiena (perchè protrusioni ed ernie sono dietro l’angolo), mi hanno insegnato come lavarlo, come gestire la sua igiene, quali strategie adoperare per vestire una persona impossibilitata ad utilizzare qualsiasi arto. Ho trascorso due settimane con lui in un appartamento pre-dimissioni, posto all’interno dell’ospedale per essere ritenuta idonea a gestire la sua disabilità.
Ma allora perchè non è stata eseguita la stessa procedura per l’aspetto mentale?
Perchè nessuno ha ritenuto opportuno insegnarmi a gestire quel senso d’impotenza che ti assale, quando ti rendi conto che è tutto troppo grande per te?
Perchè nessuno mi ha informata del fatto che rinunciando completamente alle mie ambizioni, ai miei svaghi, alla mia normalità, avrei perso completamente la stima per me stessa?
Allo sforzo fisico ci si abitua, si diventa più robusti, se ne fa una ragione ma all’impegno mentale, allo sforzo emotivo no. Soffocare il dolore, la disperazione, la paura, ti costringe allo spegnimento di qualsiasi emozione, anche quelle che potrebbero farti stare bene, e invece tu, per mettere fine a quel carico enorme di sofferenza, che ti erode dall’interno e che non puoi mostrare a nessuno, pena essere tacciata di egoismo, decidi di mettere fine a qualsiasi barlume di vitalità.
Mi ricordo ancora (e come potrei dimenticare) il giorno in cui all’ospedale, a Sondalo, dopo essere stata ricevuta dal neurologo per parlare della sua condizione, avrei dovuto informare lui.
Sdraiato su quel letto mi aspettava. Voleva sapere da me, la verità.
E’ stata la prima grande prova alla quale mi sono dovuta sottoporre. Ho preso una sedia, l’ho accostata al suo letto, ci sono salita in piedi per guardarlo negli occhi, e con tutto il coraggio che potevo avere in quel momento, gli ho ripetuto le parole del dottore: non ci sono speranze. La tua è una lesione troppo alta per pensare che di poter recuperare qualsiasi movimento. Devi rassegnarti a trascorre il resto della tua vita in carrozzina.

Leggere la disperazione nei suoi occhi è stata come ricevere una coltellata nel cuore. Anche a questo non ero preparata.
Quando sei tu a farti male, ad avere un problema di salute, a subire un’infortunio, sei disperato ma lotti con tutto te stesso per venirne fuori. Sei pronto a fare qualsiasi cosa pur di riuscire nell’intento. Ma quando succede ad una persona che ami, assisti impotente, ti senti inutile e incapace di sostenerlo come invece dovresti fare.
Le parole, vi assicuro, non sono sufficienti, soprattutto poi se neanche tu ci credi veramente. Devi prima convincere te stessa di riuscire a farlo e solo poi riesci a trasmettere, a lui, la fiducia e la forza. Devi accantonare la tua fragilità, le tue insicurezze e non è facile se nessuno t’insegna a farlo.
Prendere in carico la vita di un’altra persona è un enorme responsabilità che richiede molta consapevolezza, sicurezza nelle proprie capacità, accettazione ma anche istinto di sopravvivenza per non rischiare, come è successo a me, di lasciarti travolgere e annientare. E’ come quando devi salvare una persona che sta affogando, prima devi mettere in sicurezza te stesso, e solo dopo puoi pensare di riportarla a riva.
In questi giorni, mi hanno raccontato di almeno altre due donne che hanno fatto la mia stessa scelta. Due incidenti diversi, uno in moto, l’altro praticando sport, due risultati identici: tetraparesi, accorsi ai loro compagni.
E la cosa m’intristisce molto perchè vorrei fosse loro risparmiato, ciò che ho sofferto io.
Vorrei che qualcuno dicesse loro come stanno veramente le cose.
Perchè nel mio mondo ideale mi piacerebbe che nel momento in cui dovesse avvenire un incidente, ci si occupasse del disabile ma anche di chi se ne dovrà prendere cura.