Diario di una vita

Caregiver a chi ?

Quando da bambina mi chiedevano cosa volessi fare da grande, io rispondevo e anche con una certa convinzione: l’architetto.

Poi, crescendo, l’architetto l’ho fatto sul serio.

Ho intrapreso la scuola d’arte prima e la facoltà di architettura poi e infine dopo una laurea a pieni voti ho conseguito il dottorato.

Ero finalmente ciò che avrei voluto essere.

E devo ammettere che per dieci anni sono stata anche un bravo architetto, d’interni perché a me piaceva l’arredamento e la ristrutturazione.

Una professione svolta fino al 2007 e bruscamente interrotta, perchè ad un certo punto qualcuno ha stabilito che io sarei dovuta diventare una caregiver.

Un ruolo di cui non conoscevo neanche il termine, figurarsi l’esistenza, e per il quale non ho dovuto neanche studiare o seguire qualche corso di formazione. Un termine poco in uso, dodici anni fa, ma che oggi viene spesso utilizzato e quasi sempre impropriamente, e che potrebbe far pensare ad un incarico di un certo rilievo.

Dopotutto un ruolo come portatore di cure o dispensatore di cure, lascia pensare che sia di fondamentale importanza e come tale venga riconosciuto.

Questa cosa m’inorgoglì.

E misi in dubbio il fatto che forse, avevo buttato via anni e anni sui libri, o di pratica in studi progettuali e attività commerciali. China su quel tecnigrafo fino a notte fonda per consegnare i progetti l’indomani, perchè avevo trascorso la giornata in università e poi a lavorare. Ma ero innamorata di quella professione e non mi pesava nulla neanche il dover continuare a lavarmi le mani per togliermi dalle dita l’inchiostro del rapidograph.

Così quando mi ritrovai ad essere caregiver e dovetti, in qualche maniera, rinunciare alla mia professione, fu un colpo tremendo.

Ma chi è il caregiver?

In Italia, si è automaticamente caregiver quando decidi o, più facilmente, non puoi permetterti di pagare una persona che assista un tuo familiare non autosufficiente. Oppure quando scegli di farlo personalmente perchè sei coinvolto emotivamente e non te la senti di scaricare il peso su qualcun altro.

Un ruolo che va dall’essere infermiere, badante, assistente sociale, cuoca, cameriera, burocrate, donna e uomo di casa, a seconda dei momenti, delle giornate e delle esigenze di chi accudisci, impersonato per il 90% da donne: mamme, mogli, sorelle e figlie.

CHI E’ IL CAREGIVER IN ITALIA?

Caregiver: portatore di cure, cioè sostegno quotidiano di carattere sociale, psicologico, fisico ed emotivo che viene rivolto a persone non più autosufficienti.

E’ in realtà quella persona (genitore, figlio, coniuge, fratello) che si occupa, a titolo gratuito, di un proprio congiunto non più autosufficiente e non più in grado, autonomamente, di svolgere gli atti necessari alla vita quotidiana.

E lo fa tutti i giorni, 24h su 24h, Natale e Ferragosto compresi, senza turni di riposo o ferie. Perché anche quando, fisicamente, è in vacanza, mentalmente ed emotivamente non lo è. La sua vita ruota attorno alle esigenze della persona che accudisce e fra parentesi, non può neanche ammalarsi, non gli è consentito.

Ho scoperto poi, di non appartenere a una specie rara ma che esiste un esercito nascosto, di caregiver, composto per il 90% da donne, pari a circa 9 milioni di persone (dati ISTAT).

Eh, sì, donne. Perché curare, soprattutto in culture come quella italiana, sembra essere una prerogativa femminile, oppure un’implicita sottoscrizione alla quale aderiamo, nel momento stesso, in cui noi donne, veniamo messe al mondo.

E allora è una schiera di mamme, sorelle, ma anche compagne e mogli, un’infinità di mogli, ne ho conosciute tante all’ospedale. Donne che improvvisamente si ritrovano sole, a fianco di un uomo da accudire, che non è più colui che hanno scelto di sposare.

Di qualsiasi età, di qualsiasi estrazione sociale ma accomunate dal dover assumere un ruolo che le costringe, a seconda della gravità della situazione, e della disponibilità economica in casa, a lasciare il lavoro, a chiedere il part-time o cambiare mansione, accantonando il proprio percorso di studi e la propria realizzazione personale.

Secondo l’Istat sembra che il numero complessivo di ore di assistenza prestato dai caregiver, in Italia, sia stimato come venti milioni di ore al giorno, corrispondenti ad oltre sette miliardi di ore di assistenza all’anno, per una media di circa 8-10 anni. Risulta così comprensibile come sia difficile conciliare questo “hobby” con un altro lavoro. Non ci sono ore sufficienti per farlo.

Vista quindi la totalità dell’impegno, il risparmio da parte delle casse dello stato, che senza l’ausilio dei caregiver, si troverebbe le strutture sanitarie piene di gente bisognosa di cure e assistenza, il mio pensiero è stato: vuoi vedere che fare il caregiver è un po’ come scegliere di coltivare un hobby? Tipo il ricamo o la pittura su ceramica? (senza nulla togliere alla decorazione…) e per questo motivo il nostro Welfare non riconosce il suo ruolo fondamentale?

Altrimenti non si spiegherebbe per quale motivo non si occupi della sua tutela, del riconoscimento giuridico e soprattutto di fornire un supporto.  Se dovessero farlo per tutti gli hobby, non si finirebbe più.

Oppure dipende dal fatto che caregiver essendo una parola di derivazione anglosassone, ed essendo risaputo che gli italiani masticano poco le lingue straniere, non sapendola tradurre, preferiscono pensare che non esista.

In Italia il caregiver è invisibile, non esiste traccia della sua esistenza.

Ed è per questo motivo che io non sono una caregiver ma semplicemente una moglie, che si occupa per amore, del proprio marito diventato improvvisamente tetraplegico, con la speranza di aver sempre le energie fisiche e mentali per poterlo fare al meglio, senza pensare a ciò che riserverà il futuro, che ad oggi appare al quanto incerto.

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