Diario di una vita
Chi si preoccupa del caregiver?
Ho scritto più volte del caregiver, del suo ruolo e delle sue mansioni.
E’ un termine entrato nel linguaggio comune anche se, in pochi sanno di cosa si tratti realmente e quei pochi, ahimè, non appartengono al mondo politico. E’ di poco tempo fa, infatti, la definizione di caregiver come autista del disabile, da parte di un esponente veneto. Certo rientra nelle sue mansioni ma è oltremodo riduttivo e irrispettoso chiamare autista chi si occupa di assistere un disabile.
Ultimamente viene utilizzato il termine caregiver familiare che si differenzia da quello generico (dipendente delle strutture socio-sanitarie e personale assistenziale) per il fatto che quello familiare si occupa del disabile in forma totalmente gratuita, senza alcun riconoscimento, senza sostegno e soprattutto senza alcuna tutela legale o assicurativa.
Io stessa, fino a che non lo sono diventata, non ero al corrente di questa realtà sommersa, lo ammetto. Ci ho dovuto sbattere il muso, per capire le dinamiche e la sofferenza di chi si occupa, in maniera totalizzante di un familiare disabile. Ci sentiamo impotenti di fronte alla malattia, angosciati dal futuro, carichi di sensi di colpa e rassegnati alla fatica fisica e mentale del dover vivere per due.
L’esercito dei caregiver, per il 90% donne è in costante aumento, grazie anche all’allungamento dell’aspettativa di vita che non cresce di pari passo con la salute. Siamo sempre più anziani e con più malattie invalidanti.
Tempo fa ho letto una frase che mi è rimasta impressa che afferma che nella vita esistono quattro categorie di persone: chi è caregiver, chi lo è stato, chi lo sarà e chi ne avrà bisogno. Forse varrebbe la pena che le istituzioni locali cominciassero a pensare, seriamente e non solo in fase di campagna elettorale, ad un programma reale, sociale per una categoria in continua crescita.
Il caregiver necessita:
- di sostegni economici perchè l’assistenza continua al disabile non ci permette di continuare a lavorare;
- supporti fisici e psicologici perchè occuparsi tutto il giorno di un disabile ti spreme fisicamente e mentalmente;
- tutela legale e assicurativa perchè se accidentalmente ci facciamo male, dobbiamo assumere e pagare qualcuno che svolga i nostri compiti;
- riconoscimento di una pensione adeguata, perchè se abbiamo dovuto lasciare il lavoro per occuparci di una persona fragile, di un genitore anziano, di un figlio, nel momento stesso in cui siamo impossibilitati a farlo, ci ritroviamo senza alcun sostegno per il futuro.
Non mi aspetto che dall’oggi al domani ci siano settimane di vacanze pagate, trattamenti in centri benessere e tanto altro ancora com’è in uso in parecchi paesi del Nord Europa, mi piacerebbe che si cominciasse a parlarne, a creare tavoli di discussione, a destinare fondi ed energie per sostenere chi dedica la propria vita a quella di qualcun altro.
Spesso non abbiamo scelta. Siamo obbligate ad assumere questo ruolo perchè è più facile sopportare la fatica che la tua coscienza. Oppure perchè non possiamo permetterci di pagare una badante che ha comunque dei giorni di permesso, di ferie, la malattia, tutte cose che a noi non vengono riconosciute.
E poi da non trascurare c’è l’amore nei confronti di chi ti ha dato la vita, di chi ti ha sempre sostenuto, di chi ti è sempre stato vicino. E non è facile delegare a qualcun altro qualcosa che sai ti tocca di dovere: rendere l’amore che hai ricevuto.
Io stessa, non me la sono sentita. Ho reagito bruscamente al consiglio di assumere una badante. Ero convinta che se me ne fossi occupata io, lui, mio marito, si sarebbe dato da fare per aiutarmi ad alleggerire il carico. Ma così non è stato. Non avevo messo in conto la sua totale resa all’invalidità completa. La sua mancanza di voglia di reagire e di vivere. E io non ero pronta ad una reazione del genere.
All’ospedale mi avevano istruita per intervenire fisicamente, per tirarlo su dal letto, per lavarlo, per curare le lesioni da decubito, per assisterlo nella sua igiene personale, per sostenerlo quando in preda ai mancamenti, alle contrazioni, ma nessuno mi aveva detto che tutto questo mi avrebbe annientata.
Ti ritrovi ad essere un’appendice dipendente dai suoi umori e dai suoi problemi. Rinunci alla tua carriera, alla tua professione, alle ambizioni, e alla tua autonomia. Ed è un attimo perdere completamente la tua autostima e senza di lei è impossibile sostenere i sensi di colpa che ti assalgono ogni qualvolta provi il desiderio di uno spiraglio di normalità.
Ti senti profondamente egoista perchè cerchi di soddisfare il tuo bisogno di normalità quando al tuo fianco c’è una persona non più abile.
Queste cose, non te le dice nessuno.
Agli occhi di tutti c’è unicamente l’impegno fisico, occupazionale, spesso totalizzante, dovuto al fatto che l’assistenza è continua, non ci sono mai soste ne periodi di vacanza. Le esigenze personali non svaniscono nei giorni festivi, ve l’assicuro.
Ma seppur l’impegno fisico è estenuante, a volte massacrante, nulla è paragonabile al carico emotivo, mentale al quale siamo costantemente sottoposte. Sì, perchè anche quando riusciamo a ritagliarci uno spazio, per allontanarci dalla persona di cui ci prendiamo cura (e non tutti lo possono fare) la mente non è mai sgombera dai pensieri, dai sensi di colpa, dovuti al fatto che ti stai occupando di te stessa, quando invece dovresti occuparti dell’altra persona che non è autonoma.
Se decidi poi di affidare la cura, temporaneamente a qualcun altro, oltre ai sensi di colpa sei anche pieno di dubbi o pensieri catastrofici su ciò che può accadere in tua assenza.
Così il senso di responsabilità si associa all’enorme carico emotivo personale, che ogni giorno, dobbiamo affrontare quando impotente assistiamo alla sofferenza della persona che amiamo. Perché ogni giorno è diverso. Se lui sta bene anche tu stai bene, se lui è malato tu, inevitabilmente lo diventi.
Il coinvolgimento è totale e ti prosciuga tutte le energie fisiche ma soprattutto mentali.
Allo sforzo fisico ci si abitua, si diventa più robusti, se ne fa una ragione ma all’impegno mentale, allo sforzo emotivo no. Soffocare il dolore, la disperazione, la paura, ti costringe a spegnere qualsiasi emozione, anche quelle che potrebbero farti stare bene.
Chi mi conosce sa, che oggi, sono un’altra persona. Ho intrapreso un percorso di crescita personale, in maniera autonoma, che mi ha permesso di diventare molto più forte, resistente, e chi ma ha riportata ad amare quella vita che tante volte ho pensato di lasciare.
Sono diventata coach, personal trainer e mi sono iscritta a psicologia. Pedalo per l’Italia e l’Europa con la mia Race Across Limits che qualcuno, con grande intuito, ha definito il mio grazie allo sport, per sostenere chi si occupa di disabilità e per testimoniare che ci si può rialzare, che anche quando la vita ci mette davanti ostacoli, apparentemente insormontabili, abbiamo le forze e le energie per riprendere il nostro cammino.
Ma…“I have a dream” dare voce e visibilità al grande esercito degli invisibili: i caregiver.