Pillole di coaching
Un caricabatterie senza corrente: hai mai provato questa sensazione?
Vi è mai capitato di sentirvi come un caricabatterie, scarico e quindi privo di alcuna utilità?
A me sì! E’ una condizione che ho provato parecchi anni fa e che in questi giorni è ritornata a fare capolino. E’ bastata una giornata in cui ero poco “in forma” per farmi assalire dai fantasmi del passato.
Me ne sono resa conto stamattina, quando appena sveglia, il mio livello energetico che solitamente è al massimo, tanto da poter essere paragonato ad un led di verde acceso, era in realtà molto basso e più simile ad un rosso lampeggiante. E’ un pò come quando colleghi il tuo cellulare alla presa di corrente, pensando di caricarlo, per poi scoprire che la presa o il cavo non funzionano e per cui quel poco di energia che avevi, te la sei giocata.
Ecco, in questi giorni mi sento così. Penso di recuperare, dormendo profondamente ma in realtà, non è questo il riposo che mi serve. Le energie scarseggiano ed è un problema in generale ma soprattutto quando, come me, si è anche un caregiver. Cioè quando ci si occupa del benessere e della vita di un’altra persona impossibilitata a farlo in maniera autonoma.
E’ una sensazione che i caregiver accusano spesso e che io, per tanti anni, sono riuscita a mitigare. Occuparsi di una persona bisognosa di cure, malata e non autosufficiente ti prosciuga e ti scarica le batterie, e se non provvedi immediatamente a ricaricarle, arrivi al punto in cui ti tocca sostituirle.
Ne ho avuta l’evidenza in questi giorni dove, preoccupata per la salute di mio marito e per un intervento che dovrà subire a breve, ho accusato il colpo. Stanca, demoralizzata, sono diventata una facile preda dei sensi di colpa che, come dieci anni fa, suscitati da frasi e comportamenti scorretti, mi hanno fatta sentire impotente e profondamente egoista. Perchè in un momento delicato come questo, sentire l’esigenza e la necessità di prendersi cura, anche, di se stessi, potrebbe sembrare del tutto errato.
Ed è successo quando l’ho accompagnato a fare la visita medica, per stabilire come procedere, in merito al suo intervento. Il medico, davanti al suo schermo del pc, senza neanche guardarmi negli occhi mi ha elencato una lista di compiti aggiuntivi, da fare, per la preparazione di mio marito. Senza preoccuparsi minimamente o chiedermi se ne fossi stata capace, se avessi avuto altro da fare o se il compito fosse troppo gravoso per me.
Mi ha rivolto uno sguardo impassibile, solo nel momento in cui ho replicato che forse sarebbe stato meglio ricoverarlo, qualche giorno prima, così da permettergli di prepararsi in un luogo più idoneo, in presenza di infermieri e medici che sarebbero potuti intervenire nel caso si fosse presentato qualche problema.
La mia richiesta di aiuto, non solo non è stata accolta, ma è stata interpretata come un voler lavarsi le mani.
Il medico ha dato per scontato che rivestendo il ruolo di caregiver, io debba essere in grado di svolgere mansioni d’infermiera, assistente, badante, e ovviamente trovare il tempo per occuparmi delle necessarie prenotazioni e burocrazie varie ecc ecc.
E’ vero. Stiamo attraversando un momento molto critico e la sanità non è in grado di occuparsi di tutto ma trovo assolutamente inconcepibile che chi si occupa di una persona non autosufficiente non abbia alcun conforto, neanche morale, da chi dovrebbe in realtà sostenerlo.
Scaricare la responsabilità, completamente, sui familiari non solo non è corretto ma in questi momenti è anche disumano. Ricorrere ad aiuti esterni è rischioso e trovare qualcuno che ti sostituisca non è affatto facile.
Nel 2020 la parola più utilizzata e spesso anche in maniera inopportuna è stata resilienza. Un termine derivato dalla metallurgia che indica la capacità dei metalli di resistere agli urti improvvisi, oppure “resalio” indicava, per gli antichi, la volontà di risalire sulla barca rovesciata dal mare in tempesta.
Sono stati scritti quantità innumerevoli di libri che raccontano gesta eroiche di atleti, ritenuti giustamente esemplari dal punto di vista della resilienza. Ma credo che il caregiver sia in assoluto l’incarnazione più corretta di questo termine. Non ha scelto di sfidare i propri limiti ma si è trovato a gestire condizioni difficili, contando solo sulle proprie forze ed energie, contrastando lo stress continuo e l’isolamento sociale a cui è costretto.
Occuparsi di chi soffre, rinunciando alla propria normalità, richiede una grande forza d’animo ma anche una motivazione e un’energia continua.
L’atleta di endurance, l’ultracycler, l’ultramaratoneta, si ricaricano emotivamente praticando uno sport che li appassiona, che gli gratifica e che nell’affrontare la fatica gli fa sentire vivi. Lo so, perchè è quello che provo io quanto preparo un Ironman o percorro oltre 3 mila km in bici. La fatica fisica mi fa sentire bene, viva e soddisfatta di me stessa.
Quando invece mi occupo di mio marito lotto per non farmi sopraffare dal senso d’impotenza, dalle difficoltà che sembrano crescere di giorno in giorno, dal fatto che non posso contare su nessuno se non su me stessa. Praticare sport mi aiuta, mi permette di caricarmi e di allenarmi ad affrontare qualsiasi ostacolo.
Ma è anche l’occasione di occuparmi del mio benessere psicofisico perchè c’è una cosa che nessuno ti dirà mai e cioè che per poter aiutare gli altri, bisogna prima pensare a se stessi.
Perchè se non ci prendiamo cura di noi stessi, sarà difficile continuare ad occuparsi degli altri. Arriverà il momento in cui saremo talmente esauriti da non essere più in grado di fare nulla.
Quando in aereo, prima del decollo, ci spiegano come agire in caso di pericolo, ci dicono d’indossare la maschera per l’ossigeno prima di aiutare chi ci è accanto e non viceversa.
Ma come si fa a decidere di occuparci di noi stessi, mettendo a tacere i sensi di colpa?
Pensando a noi stessi come ad un caricatore di batteria che ha bisogno di essere alimentato in maniera corretta, che deve essere posizionato in un luogo stabile senza essere sottoposto, continuamente, a variazioni di corrente o elementi stressanti. Un oggetto delicato che se mantenuto bene può durare a lungo e caricare gli apparecchi a cui è destinato, diversamente potrebbe esaurirsi inesorabilmente.
In gergo più umanistico, riconoscendo a noi stessi, il nostro valore. Siamo importanti perchè aiutiamo qualcun altro (che non può farlo in maniera autonoma) a vivere e stare meglio.
Ci meritiamo quindi di pensare e trattarci con cura e rispetto, alimentandoci in maniera sana, riposando il tempo necessario, dedicandoci a ciò che ci fa star bene: un massaggio, una passeggiata all’aria aperta. Praticando uno sport che ci possa piacere e che ci dia la possibilità di diventare più forti fisicamente e mentalmente, in grado di affrontare e superare, in maniera autonoma, le difficoltà. In questo caso sarà anche più facile contrastare gli eventuali sensi di colpa, le malignità di commenti e giudizi da parte di persone che tentano di sminuire il nostro compito.
E cosa ancor più importante è quella di selezionare le nostre frequentazioni. Dobbiamo circondarci di persone che ci aiutino a caricarci e non che cerchino, con le loro lamentele, negatività, frustrazioni e insicurezze, di depauperare le nostre preziose batterie.
Dobbiamo custodire gelosamente il nostro patrimonio energetico perchè è quello che ci permette di aiutare chi ha bisogno senza farci andare in rosso.